martedì 28 ottobre 2014

Ricordare Rossana Ombres (1931-2009). Verso un’apertura europea del canone letterario italiano

In un momento in cui il concetto stesso di letteratura viene discusso sempre più diffusamente anche in ambito non accademico, con uno sguardo più aperto verso questioni di critica, politica editoriale, mercato e nuovi media, di tutte le interpretazioni che si potrebbero dare oggi dell’opera di Rossana Ombres non si trova ancora alcun riscontro all’interno della critica ufficiale. Qualcosa è stato fatto, in questi ultimi anni, in area anglo-sassone, anche se l’opera narrativa ombresiana è stata analizzata e valorizzata soltanto secondo quella prospettiva che vede nell’uso del fantastico femminile una modalità scrittoria idonea e capace di incidere sul canone letterario, ossia un modo per mettere in discussione gli stereotipi, anche femminili, che la cultura tradizionale italiana ha tramandato.
Ma la scelta di far uso del fantastico da parte di Ombres non era fondata soltanto sulle possibilità espressive che questo genere letterario offre. Certamente mirava a convogliare nella sua scrittura una sensibilità differente, mantenendo quel suo stato di alterità femminile che le consentisse pienamente quel simpatetico dialogo con il lato irrazionale della realtà - impersonato variamente nella figura del mostro, dell’abietto o di altre varie creature reali o immaginarie (si pensi, in questo senso, agli ‘scarabangeli’ presenti in Principessa Giacinta) - ma questa ‘femminile’ inclinazione verso il fantastico tendeva a definirsi essenzialmente come opposizione a quella interpretazione razionale e razionalistica della realtà che, in gran parte, almeno fino ai primi anni Settanta del secolo scorso, era quella offerta dalla narrativa neorealista italiana.
Nel corso di questo scritto si accennerà diffusamente a come Rossana Ombres pervenne al romanzo, una scrittura narrativa che risente profondamente di un lungo e appassionato esercizio di poesia la cui qualità segnica e semantica fu subito riconosciuta da critici e letterati. Anche fosse solo per questo, l’interesse che l’opera di Rossana Ombres dovrebbe suscitare nella critica sarebbe oggi pienamente giustificabile perché tocca dimensioni storiche ed esistenziali della scrittura femminile, dell’emancipazione della donna e delle immagini che le donne hanno dato e danno di sé, del loro coraggio e della loro intelligenza. Infatti, la ricchezza, la chiarezza e, nel contempo, la complessità del linguaggio ombresiano, gli intrecci culturali che vengono a realizzarsi nella sua scrittura, indicano che molti sarebbero gli aspetti da rilevare e chiarire: non solo linguistici e letterari, ma anche epistemologici, psicologici, storici e sociali. Riaprire il discorso su Rossana Ombres e riscoprire l’importanza del suo lavoro letterario e del suo particolare ‘sguardo’ significherebbe, pertanto, dare un apporto significativo alla critica letteraria e, soprattutto, attraverso queste nuove chiavi di lettura, aprire nuove prospettive di sviluppo particolarmente importanti non solo sul piano specifico del linguaggio e della scrittura, ma anche su quello socio-culturale, politico, filosofico e antropologico.
Lo sguardo ombresiano (come anche quello di molte altre scrittrici), incline per natura a testimoniare un modo differente di abitare e leggere il mondo, invita dunque a riflettere sulle modalità di scrittura di Rossana Ombres e sollecita anche a chiedersi perché, nonostante la sua notevole capacità di introspezione, acquisita anche grazie all’apporto del segno poetico nella composizione narrativa, non trovi ancora sufficiente riscontro nella letteratura ‘alta’. Infatti, se è vero che la padronanza del linguaggio equivale alla padronanza del mondo che la persona costruisce per viverci dentro, gli studi su Ombres permetterebbero di tracciare sviluppi non solo ricchi di informazioni e suggestioni, ma, come afferma il celebre filosofo della mente Thomas Nagel, esistenzialmente vitali, capaci cioè di elaborare un sapere legato ad una realtà ricca di significati il cui scopo principale è quello di «collocarci nel mondo come in una cornice comprensiva, insieme ai punti di vista personali che ci sono propri»[1].
Come quello di molti scrittori del XIX secolo, l’uso che Ombres fa del fantastico è spesso altamente intertestuale[2], il che dimostra il potenziale semantico che questo genere letterario possiede. Tuttavia, violando le stesse regole del fantastico, eludendo e, essenzialmente, ‘deludendo’ nel lettore il senso di ‘misurata esitazione’ che, come teorizzato da Tzvetan Todorov[3], ne sta alla base, il fantastico ombresiano, almeno fino a Serenata (1980), si attua per ‘eccesso’, col fine specifico di riconfigurare, e chiaramente affermare, il ruolo svolto dal soggetto femminile all’interno dell’ordine letterario e, più in generale, di quello sociale, politico e culturale. Per Ombres, dunque, il fantastico è un utile strumento per contestare e mettere in discussione le regole socio-culturali, oltre che affermare quel sé femminile che l’ordine patriarcale ha sempre tentato di reprimere, spesso con successo.
Sin dai suoi esordi, Ombres rifiuta un tipo di narrazione ‘ridondante’, saldamente in mano a un narratore onnisciente in grado di fornire esaustive spiegazioni psicologiche, etiche e sociali degli eventi narrati, instradando in tal modo l’interpretazione del lettore in una univoca e specifica direzione. Ombres adotta invece un tipo di narrazione ‘reticente’ (che è poi tipica della narrazione fantastica), ma così manchevole e carente tanto di puntelli esplicativi quanto di informazioni, indispensabili per una benché minima decodificazione, che giustifica l’eloquente qualificazione che la dt. Hipkins assegna alla prima maniera ombresiana come di ‘eccessivamente fantastica’.
Negli ultimi due romanzi, invece, pur mantenendo una ‘traccia’ di fantastico nel corpo delle protagoniste, Rossana Ombres si avvicina ad una narrazione di tipo neorealista, anche se rimane un certo grado di reticenza soprattutto per quanto riguarda la ‘traccia’ di fantastico che l’accompagna: si pensi, in questo senso, alla ‘anomalia’ della protagonista di Un dio coperto di rose, forse un ‘gobbo’, che segna il corpo e anche la psiche della protagonista e che però non troverà soluzione alcuna all’interno del romanzo. Certo è che se un margine di reticenza è rintracciabile in diversa misura in qualsiasi opera letteraria, nondimeno esistono casi in cui l’uso del silenzio sulla narrazione si fa più categorico che altrove e i vuoti o le indeterminatezze del testo, oltre ad essere dei dispositivi per creare suspense, costituiscono le vere e proprie strutture portanti di tutto l’edificio narrativo ombresiano. Questo è ciò che accade nel racconto fantastico che Ombres mette in piedi, la cui tendenziale trasgressività semantica può essere fatta risalire proprio all’accordo tra un contenuto oscuro e abissale e una strategia narrativa improntata alla reticenza e alla sottrazione d’informazione. Nelle analisi testuali delle opere ombresiane appare evidente come, dosando in modo diverso il non-detto (si confrontino, ad esempio, Principessa Giacinta e Un dio coperto di rose), scaturiscano vicende il cui grado di dirompenza e di densità semantica è direttamente proporzionale al grado di reticenza esplicativa insito nel racconto.
In effetti, per la sua natura ibrida e il rifiuto di una visione totalizzante della realtà per accogliere inconsueti e inquietanti ‘altri’ nello spazio domestico, il genere fantastico può essere usato sia per sperimentare nuove soluzioni narrative sia per esplorare alternativi paradigmi conoscitivi e gnoseologici. Il fantastico femminile, infatti, fornisce una narrazione e una soluzione semantica che permette all’‘alterità’ di emergere da quel che si ritiene il reale. In questo modo, la realtà può essere rappresentata anche nella sua ‘stranezza’, sia essa quella del ‘mostro’ o dell’isteria femminile o quella, ben più dirompente, di una critica sociale dell’ordine patriarcale e dei valori della cultura maschio-dominante che vi sottendono. Ciò che comunque caratterizza e differenzia il fantastico femminile dal fantastico in generale è l’ipotesi che le manifestazioni dell’‘alterità’ non provocano più inquietudine, come avveniva con l’inserimento dell’elemento ‘perturbante’ (il freudiano Unheimliche), ma, piuttosto, un surplus di pathos. Ecco, dunque, che questa modifica concettuale del genere fantastico offre alla scrittrice un formato narrativo alternativo con cui non solo può rappresentare l’inversione di quelle strutture di potere che in precedenza avevano modellato la comprensione della realtà, ma anche, di conseguenza, proporre un nuovo ordine e una diversa sistematizzazione del reale. L’uso del fantastico da parte di Ombres denota quindi una concezione letteraria che considera il fantastico un utile strumento non solo per formulare strategie di resistenza verso la scrittura maschile ma, ben più in profondità, verso il canone letterario maschio-dominante, il cui paradigma conoscitivo Ombres cercherà costantemente di mettere in discussione.
Da questa indagine emerge così la necessità di valorizzare un particolare tipo di sguardo, quello di donna, con cui vengono raccontati i fatti del mondo, uno sguardo che esclude qualsiasi segno di neutralità e che si carica della consapevolezza, specie quando si tratta di narrare dell’esclusione delle donne dal canone, di dover offrire una scrittura non più modellata sui bisogni della cultura maschio-dominante e sull’inganno di una scrittura, quella maschile, propagandata come universale. D’altronde è proprio da qui che ha preso le mosse questo studio su Rossana Ombres, ossia quello di rintracciare, nella pur amplissima diversificazione tematica e strutturale della narrativa ombresiana, gli inneschi e i dispositivi della sua ‘trasgressione’ nella persuasione che a scatenarne e orientarne il funzionamento sono meccanismi e intenti sostanzialmente simili e complementari: la rottura del canone maschio-dominante e la creazione di uno specifico spazio letterario femminile.
Alla ‘prima maniera’ ombresiana, quella ‘eccessivamente fantastica’ che giunge fino a Serenata (1980), succede infatti quella degli ultimi due romanzi, che la dt. Hipkins ha definito della ‘creazione del sacro spazio femminile’[4]. Come sarà in seguito rilevato in questo scritto, sia in Un dio coperto di rose (1993) che in Baiadera (1997) Ombres adotta un linguaggio piano e molto prossimo alla narrativa di stampo neorealista. Tuttavia, pur mantenendo una ‘traccia’ di fantastico nelle disabilità fisiche delle protagoniste, la maggior attenzione verso il contesto storico e i luoghi geografici sta a indicare un obiettivo ben preciso: quello, appunto, che porti alla creazione, attraverso lo sguardo femminile, di un nuovo spazio narrativo in cui sono le donne a definirne le forme e i significati.
Certo, a parte poche eccezioni, la critica letteraria italiana finora non ha dedicato grande attenzione alla letteratura femminile, forse perché essa induce a ripensare il modello compatto della nostra letteratura mettendo in discussione i criteri di fondo con i quali ancora si definisce e si valuta la letterarietà. Esiste, infatti, un profondo distacco tra la critica letteraria e la proliferazione delle molteplici pratiche letterarie femminili e questo riconoscimento potrebbe essere un punto di partenza per una ridefinizione dei criteri critico-metodologici e adeguare in tal modo il canone italiano a quello europeo. Il fatto è che la produzione letteraria femminile fa vacillare una serie di assunti - come i regimi disciplinari, i generi letterari o le periodizzazioni - che troppo spesso vengono ancora dati per scontati e incontrovertibili. Inoltre, l’attuale prorompere della letteratura femminile costringe chi si occupa oggi di critica letteraria ad allargare la visione anche verso altri tipi di ‘sguardi’, come ad esempio quello migrante[5], che stanno costringendo il mondo intellettuale europeo a confrontarsi da tempo coi temi della differenza e dell’alterità. Nella letteratura europea contemporanea, infatti, è in corso una radicale trasformazione dovuta alle nuove soggettività che stanno delineano l’immagine multiculturale dell’Europa d’oggi. Di qui l’esigenza di produrre modelli interpretativi ed epistemologici che non siano più basati sull’esclusione o la discriminazione, nonché la possibilità di aprire nuovi spazi creativi e alternativi per la rappresentazione della soggettività e, quindi, la capacità della letteratura di rappresentare le molteplicità e la complessità della realtà contemporanea.
Non si tratta, quindi, di istituire un nuovo settore letterario (o un ‘sub-genere’) in cui definire e delimitare la letterarietà femminile, quanto, piuttosto, provare a stringere delle alleanze tra esclusi che siano in grado di proporre strategie alternative e oppositive contro le dominazioni di genere, di razza o di classe. Come afferma la filosofa statunitense Donna Haraway, che «non c’è nulla nell’essere femmina che costituisca un legame naturale tra le donne»[6], non si può pretendere di costruire un’azione politica o culturale soltanto sulla base di un’identificazione naturale nella categoria ‘donna’. Lo stesso vale quando si analizza la storiografia letteraria, dove non si può affermare l’esistenza di una ‘sensibilità femminile’, o di un ‘genio femminile unico’, perché «non esiste, in letteratura, una sola tradizione femminile; non esiste una sola espressione letteraria a cui le donne si siano limitate»[7]. Anzi, sostenere la specificità di uno stile femminile significherebbe solo riprodurre uno di quegli stereotipi che finirebbe per ghettizzare le donne, piuttosto che contribuire al riconoscimento della loro presenza nella tradizione letteraria.
Ecco, dunque, che l’analisi degli aspetti più stimolanti che la narrativa di Rossana Ombres sollecita, non solo si rivela ricca di suggestioni e proposte per aggiornare e adeguare il canone letterario italiano a quello europeo, ma suggerisce la necessità di elaborare una mappa concettuale ben più ampia e aggiornata e capace di accogliere in sé il dispiegarsi delle diverse forme di poligrafia. Del resto, l’attività che più impegnò Rossana Ombres fu quella pubblica di critico letterario per ‘La Stampa’, i cui articoli, grazie anche alla capacità di introspezione acquisita nella composizione letteraria, presentano quella originalità e ‘leggerezza’ di scrittura che rendono l’opera di Ombres un importante caso letterario da reinterpretare e valorizzare in tutte le sue forme d’espressione. Dedicarle uno studio esauriente «sarebbe un giusto omaggio a una poetessa e narratrice che, alla distanza, prende sempre più spicco; e valorizzerebbe un tipo di sperimentalismo cui non si è data tutta l’attenzione che merita»[8].


[1] T. Nagel, Mortal Questions, Cambridge University Press, Cambridge 1979; tr. it., Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano 1986, p. 98.
[2] Molto utile, per capire meglio l’opera di Ombres, sarebbe fare una ricerca sulla sua attività di critico letterario de ‘La Stampa’, e ciò in considerazione del carattere intertestuale di molte sue opere: si pensi, in questo senso, a Principessa Giacinta e Serenata, in cui le protagoniste sono rispettivamente una scrittrice fallita e un affermato critico letterario.
[3] Cfr. T. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Editions du Seuil, Paris 1970; tr. it. La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977.
[4] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, Legenda, Oxford 2007, p. 192.
[5] Cfr. A. Gnisci, La letteratura italiana della migrazione, Lilith, Roma 1998.
[6] D.J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 47.
[7] E. Moers, Grandi scrittrici, grandi letterate, Edizioni Comunità, Milano 1979, p. 104.
[8] C. Segre, Le tante radici di Rossana Ombres, in “Corriere della Sera”, 7 agosto 2009, p. 37.

Il canone letterario italiano e le ragioni di un’esclusione. Il clamoroso caso di Rossana Ombres (1931-2009)

Premessa 

Questo scritto, che ha preso origine da importanti ricerche di alcune italianiste d’area anglo-sassone e francese[1], è il primo di una serie che riguarda l’opera e la scrittura di una scrittrice italiana recentemente scomparsa (2009).
Praticamente sconosciuta al grande pubblico, il nome di questa scrittrice d’altro canto non dice molto, se non forse a coloro che, in ambito editoriale e giornalistico, l’hanno conosciuta: è stata per trent’anni redattrice de ‘La Stampa’ di Torino per la sezione cultura.
Al lettore medio italiano (e alla lettrice media italiana), dunque, il suo nome non dice praticamente nulla. Mai pubblicizzata (tantomeno dalla sua casa editrice Mondadori, che l’ha volutamente tenuta a lungo e tiene ancora chiusa ‘in un cassetto’) questa scrittrice, infatti, resta ancora nell’ombra, come d’altronde viene in mente quando si pronuncia il suo nome: Rossana Ombres, una donna ‘in ombra’ o, per dir meglio, lasciata ‘in ombra’, ‘oscurata’.
Rossana Ombres, però, resta un fenomeno emblematico di come la cultura e il canone letterario italiano reagiscono di fronte al fenomeno femminile che si esprime nella sua creazione. La dt. Danielle Hipkins, italianista di fama dell’University of Exeter, ha tentato recentemente di darne delle spiegazioni[2], che restano però marginali se guardiamo al panorama letterario e culturale italiano nel suo complesso. È importante, tuttavia, che ci si chieda per quale motivo una scrittura così ricca di spunti linguistici e pregevole espressione di una ‘diversa’ e potente sensibilità possa scomparire all’improvviso senza lasciar traccia di sé; che cosa induce la politica editoriale a cassare uno scrittore nonostante questi abbia ricevuto importanti riconoscimenti critici; che cosa si può fare affinché una pluralità di sensibilità diventi finalmente la struttura portante di un discorso culturale non più di esclusione ma di concreta e effettiva integrazione di tutte le voci. Qui, dunque, non si parla soltanto di ‘scrittura al femminile’, ma della politica culturale che sta alla base del canone letterario italiano, il più ‘esclusivo’ e mai veramente aperto, accogliente, in movimento, onnicomprensivo e plurale come invece avviene oggi in gran parte degli altri paesi europei.


Il canone letterario italiano e le ragioni di una esclusione.
Il clamoroso caso di Rossana Ombres (1931-2009)

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«Scesa sempre più in fondo nel silenzio…». Così l’illustre e apprezzato critico letterario Cesare Segre apriva il suo elzeviro sul ‘Corriere della Sera’ dedicato a Rossana Ombres alcuni giorni dopo la sua morte (2009)[3]. Eppure con i suoi testi poetici e narrativi Ombres aveva sin da subito colpito entusiasticamente i critici, che ne coglievano prontamente l’originalità sia linguistica che tematica. Come spiegare, allora, questa ‘rimozione’, per usare un termine ormai divenuto usuale quando si parla di scrittura femminile in relazione al canone letterario italiano?[4]. Rileggendo Ombres, infatti, con il suo inconfondibile stile, da cui emerge uno studio profondo sulla lingua e sulla parola, ricco di rinvii letterari che si mescolano ad allusioni bibliche, talmudiche e talvolta anche cabalistiche, sembra impossibile che questa scrittrice non abbia trovato in Italia quel dovuto riconoscimento letterario e editoriale che merita. Una vaga e lievemente plausibile spiegazione potrebbe trarsi da un’intervista che la scrittrice rilasciò dopo l’uscita del suo penultimo romanzo Un dio coperto di rose (1993): «Non posso dire di avere maestri o modelli, e neppure compagni di strada, scrittori che sento vicini. Sono una scrittrice solitaria»[5]. Nominata Accademico d’Italia, scrittrice di chiara fama[6] e Commendatore, non sono bastati gli apprezzamenti di fini critici per renderle ragione e dare finalmente ascolto alla sua voce autentica e allo stesso tempo originale. Ombres, dunque, non ebbe affinità con nessun altro/a scrittore, nessuna modalità scrittoria vicina a qualsivoglia scuola o tendenza poetica; è stata una scrittrice solitaria, superba, una ‘anacoreta della parola’, come la definì fondatamente il poeta italiano Andrea Breda Minello[7]. Nella poesia, infatti, intento di Ombres fu sempre quello di riappropriarsi della parola, ormai consunta e impoverita dagli epigoni dell’ermetismo e del grande realismo. La sua poesia fu una vera e propria rimessa in questione della parola, del suo suono, delle sue radici e delle sue ragioni, senza esonerarla, come fu con l’ermetismo, dal suo dovere di dover significare, ma anzi arricchendone le proiezioni morfologiche facendola esprimere attraverso tutte le sue innumerevoli possibilità. Questo, dunque, fu Rossana Ombres, che prima di dedicarsi alla narrativa aveva compiuto un profondo lavoro di scavo e di ricognizione a livello poetico per riportare la parola a riacquistare le sue potenzialità.
Occorre considerare, tuttavia, che a differenza delle altre culture occidentali in Italia le conseguenze di una plurisecolare esclusione delle donne dalla produzione artistica ha ancora un impatto significativo non solo sulla loro scrittura ma anche sull’immagine che le donne vogliono darsi[8]. Di conseguenza è necessario indagare su come e perché alcune scrittrici italiane contemporanee si sono occupate e hanno sperimentato una modalità scrittoria tipica del canone letterario maschio-dominante europeo come quella del romanzo fantastico. Infatti, secondo l’italianista inglese Danielle Hipkins, è all’interno di questo genere letterario che le donne hanno trovato e possono trovare le occasioni per trasgredire consapevolmente molti confini testuali e, riformando la lingua, rimodellare anche le nozioni del sé e della realtà[9]. È vero che nell’immaginario pubblico, come negli ambienti accademici, il fantastico narrativo è sempre stato considerato un genere d’evasione per l’accento sull’elemento ‘meraviglioso’ che lo caratterizza. Ma questo tipo di considerazione, in realtà, sembra mascherare il sospetto, se non l’avversione, nei confronti del fantastico come genere letterario perché ritenuto frutto ed espressione di una qualche ‘irresponsabilità’, etica, politica o sociale, che, in realtà, sottende spesso al messaggio che la letteratura fantastica vuole e intende trasmettere. Numerose, infatti, sono le manifestazioni fantastiche contemporanee (nella letteratura, nell’arte, nel pensiero) che possiedono una carica autenticamente eversiva nei confronti del sistema simbolico dominante e, spesso, in questa ‘vocazione’ alla trasgressione, in cui risiedono uno degli scarti più significativi della letteratura recente, sono ‘implicate’ delle donne. La dt. Hipkins afferma, tuttavia, che il ritardato riconoscimento dei diritti politici e sociali alle donne italiane, in combinazione con una forte tradizione realistica sorta sotto gli auspici del romanzo manzoniano[10], sono i motivi principali per una situazione culturale molto diversa da quella d’area anglo-sassone, ed è per questo che intravede nel fantastico femminile italiano una potente ed efficace forma di trasgressione letteraria che a volte appare anche come una ‘feroce’ reazione delle donne scrittrici al canone letterario maschio-dominante italiano e ai relativi modelli culturali, oltre che simbolici, che vi sottendono.
In effetti, la scelta di far uso del fantastico da parte di Ombres non è fondata soltanto sul fatto che sia un genere letterario che consente un discreto margine di libertà d’espressione - anche se Ombres mira a convogliarvi una sensibilità differente che si pone in un serrato dialogo con il lato irrazionale della realtà - ma è anche la chiara manifestazione di quella ‘feminine’ inclinazione che tende a definirsi proprio in opposizione a un’interpretazione razionale e razionalistica del reale, com’era ed è, in gran parte, quella offerta dalla narrativa maschio-dominante di stampo neorealista.
Nella prima parte di questo saggio, quindi, dopo una breve indagine sulle principali questioni che riguardano la scrittura femminile in Italia, la persistente esclusione delle donne dal canone letterario e i più recenti approcci teorici al fantastico ‘femminile’, proverò a illustrare la fortuna che questo genere letterario ha avuto nel contesto italiano, soffermandomi soprattutto su quel concetto dell’italianistica anglo-sassone, il ‘Mythic revisionism’[11], che sembra trovi importanti anticipazioni nell’unica opera teatrale ombresiana (Orfeo che amò Orfeo, 1974), come l’italianista Lucia Re ha bene messo in luce riferendosi all’opera di Rossana Ombres, ritenendolo, insieme all’uso del fantastico, alla base del tentativo ombresiano, e non solo, di scardinare il paradigma letterario neorealista italiano.
Proseguirò poi con l’analisi delle opere narrative di Rossana Ombres, dando inizialmente un giusto rilievo alla sua opera poetica, che meriterebbe un approfondimento a parte per l’originalissima cifra stilistica che la caratterizza. La poesia ombresiana[12], infatti, presenta una tale estraneità dalle correnti letterarie contemporanee che andrebbero ricercate le coordinate su cui è stata imbastita. In effetti, il grande lavorio ombresiano sulla parola ha dato risultati che, a tutt’oggi, sembra esulino ancora da gran parte del panorama poetico contemporaneo. Sin dagli esordi, infatti, il gusto del segno espressivo e le misurate scelte linguistiche che non cedono mai alla suggestione elegiaca, fanno della poesia ombresiana un vero tesoro con il quale sarebbe bene che la critica contemporanea cominciasse a misurarsi, soprattutto mettendola a confronto con la creazione poetica di quegli anni in cui dominava ancora il minimalismo della poesia ermetica e dei suoi epigoni.
Nella parte relativa all’opera narrativa, invece, proverò a ricostruire quel percorso che ha condotto Ombres da un uso ‘eccessivo’ del fantastico dei primi romanzi[13] - in cui appare una spiccata predilezione per una turbata psiche femminile e per un’ambiguità narrativa che confonde i confini fra lato conscio e inconscio delle protagoniste e che, quindi, apparentemente esclude una narrazione coerente (soprattutto in Principessa Giacinta)[14] - ad una cadenza narrativa in cui, pur conservando una traccia di fantastico in una piccola e invisibile ‘anomalia’ fisica che caratterizza le protagoniste, Ombres si apre ad una scrittura dichiaratamente neorealista, che, più che un omaggio a quella tradizione, dimostra come l’intento di questa scrittrice sia proprio quello di ‘entrarci dentro’ per scardinarne i termini e contestarne il canone di riferimento, insieme al suo relativo sostrato simbolico. Si pensi, in tal senso, a Un dio coperto di rose e a Baiadera, i due ultimi romanzi ombresiani, in cui la narrativa di Ombres si concentra tutta sulla ‘creazione di un sacro spazio femminile’, come Danielle Hipkins ha efficacemente definito il tentativo ombresiano di dar vita ad un universo narrativo femminile, ossia uno spazio letterario in cui sono le donne, finalmente, a definirne le forme, i luoghi e i significati cercando di dar vita ad un nuovo e riformato canone letterario italiano.
Mi sembra utile terminare questa breve presentazione con le parole del comparatista Remo Ceserani, secondo il quale «La letteratura fantastica finge di raccontare una storia per poter raccontare altro»[15], ovvero indirizzerebbe i suoi sforzi verso quei modi e quelle tematiche che a volte vengono descritte come «compensazioni contingenti alle proibizioni sociali»[16], ma che, in realtà, la scrittura fantastica fa propri non tanto per esplorare l’area del naturale o del sovrannaturale, quanto piuttosto per sondare nuovi aspetti della vita che non erano esplorabili perché ancora rappresentati da un vecchio modello culturale, quello neo-realista e maschio-dominante, che soltanto ora comincia ad essere messo in discussione e che Rossana Ombres aveva già voluto contestare e caparbiamente riformare con la sua ‘straordinaria’ opera letteraria.


[1] Nomino qui quelle studiose che più hanno contribuito con le loro ricerche alla realizzazione di questo scritto: d’area anglo-sassone Danielle Hipkins, Francesca Billiani, Lucia Re, Rosi Braidotti, Donna Haraway, Camille Paglia e, d’area francese, Giovanna Zapperi, Luce Irigaray e Julia Kristeva. 
[2] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, Legenda, Oxford 2007, p. 30. 
[3] C. Segre, Le tante radici di Rossana Ombres, in “Corriere della Sera”, 7 agosto 2009, p. 37. 
[4] Cfr. M. Zancan, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Einaudi, Torino 1998. 
[5] A. Baricco, Punta al capolavoro altrimenti lascia perdere, intervista a Rossana Ombres, in “La Stampa”, 27 giugno 1993, p. 5. 
[6] Agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, dopo aver pubblicato tre raccolte di poesie, la piemontese Rossana Ombres pubblica il suo primo romanzo: Principessa Giacinta (Rizzoli 1970), un’opera ben accolta dalla critica per l’intelligente sperimentalismo linguistico e per l’uso e il trattamento di tematiche alquanto originali con cui indaga, grazie alla sua scrittura ‘femminile’, la vita e la mente dei personaggi. Con questa sua prima opera narrativa Ombres vince il Premio Sila (1971), ad ex-aequo con un’opera tradizionalista di Loris Bonomi. Il suo terzo romanzo, Serenata (Mondadori 1980), è finalista al Premio Campiello, assegnato a Il fratello italiano di Giovanni Arpino, mentre con il quarto, Un dio coperto di rose (Mondadori 1993), vince il Premio Grinzane Cavour ed è finalista al Premio Strega, assegnato, dopo diverse polemiche, a Ninfa plebea di Domenico Rea (La più votata in tutte le preselezioni del premio, Ombres corse da sola, cioè senza l’appoggio del proprio editore che preferì convergere su Rea). 
[7] A. Breda Minello, Un po’ di luce sulla Ombres, in “Daemon”, anno III, n. 6, novembre 2002, p. 43. 
[8] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: The creation of Literary Space, cit., p. 1. 
[9] Ibidem, p. 2. 
[10] Ibidem, p. 30. 
[11] L. Re, Mythic Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, in “Quaderni d’Italianistica”, Canadian Society for Italian Studies, vol. 14, n. 1, 1993, pp. 75-109; reprint in M.O. Marotti (Ed.), Italian Women Writers from the Renaissance to the Present. Revising the Canon, Pennsylvania State University Press, University Park (PA) 1996, pp. 187-234. 
[12] Tra le opere di poesia di Rossana Ombres si ricordano: Orizzonte anche tu, Vallecchi, Firenze 1956; Le ciminiere di Casale, Feltrinelli, Milano 1962 (Premio Firenze); L’ipotesi di Agar, Einaudi, Torino 1968 (Premio Tarquinia-Cardarelli); Bestiario d’amore, Rizzoli, Milano 1974 (Premio Viareggio per la poesia; prima donna a vincerlo). 
13] Cfr. D.E. Hipkins, Excessively Fantastic? Rossana Ombres’s Serenata, in F. Billiani, G. Sulis (Eds), The Italian Gothic and Fantastic. Encounters and Rewritings of Narrative Traditions, Fairleigh Dickinson University Press, London 2007, pp. 188-209. 
[14] Indicativi, in tal senso, i rilievi dell’antropologa statunitense Camille Paglia sul carattere ctonio della scrittura femminile; cfr. C. Paglia, Sexual Personae: Art and Decadence from Nefertiti to Emily Dickinson, Yale University Press, London 1990;  tr. it. Einaudi, Torino 1993. 
[15] R. Ceserani, Il fantastico, Il Mulino, Bologna 1996, p. 112. 
[16] R. Ceserani, Le radici storiche di un modo narrativo, in R. Ceserani (a cura di), La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, Pisa 1983, p. 34.

‘The Mythic Revisionism’ in Rossana Ombres: Orfeo che amò Orfeo (1974)


In un importante saggio del 1993, in cui l’italianista Lucia Re analizzava l’opera poetica di quattro autorevoli scrittrici italiane quali Maria Luisa Spaziani, Rosita Copioli, Amelia Rosselli e Rossana Ombres, appariva per la prima volta il termine di ‘Mythic revisionism’, concetto che oggi sottende ad una modalità di lettura della scrittura poetico-narrativa specificamente (anche se non esclusivamente) femminile[1].
Il fine dichiarato dalla prof. Re era allora quello di basarsi sulla differenza di genere per riconsiderare la scrittura femminile - ma in termini né riduttivi né metafisici - e quindi dar luogo all’idea che possa esistere un’estetica specificamente ‘femminile’ che si manifesterebbe attraverso la rielaborazione di alcune mitologie, e precisamente quelle che stanno alla base della cultura maschio-dominante e di tipo patriarcale affermatasi e consolidatasi nei secoli in Occidente.
Già nella scrittura maschile, d’altronde, la rielaborazione di antichi miti è stata una pratica ampiamente frequentata: ad esempio, l’Ulisse omerico si è trasformato nell’Ulisse di Joyce, l’Edipo sofocleo in quello di Freud, il Don Giovanni di Molière in quello di Mozart o Kierkegaard[2]. Tuttavia, ammesso anche che l’ordine simbolico può trovare altre forme di espressione, rimane incontestabile quanto il potere di una figura simbolica sia incomparabilmente superiore per forza comunicativa e evocativa a qualsiasi altra. Le figure mitiche hanno, infatti, la capacità di concentrare al loro interno una specie di incarnazione paradigmatica dell’ordine simbolico che le informa.
Il fatto è che quest’ordine simbolico, pur soggetto a mutazioni, in Italia è rimasto nel segno della cultura patriarcale, esprimendo un sistema valoriale specifico, cioè quello maschio-dominante[3], in cui il soggetto maschile, pur dichiarandosi di essere neutro e universale, esprime sempre la propria centralità, individuando intorno a sé un mondo configurato secondo la propria immagine e le proprie necessità. Ovviamente, anche le figure mitiche femminili che trovano posto all’interno di questo sistema simbolico fanno riferimento al soggetto maschile, per cui Ulisse avrà la sua Penelope, Zeus la sua Era, Don Giovanni la sua Zerlina, la sua donn’Anna e la sua donna Elvira[4].
Ma cosa può accadere se qualcuno improvvisamente decide di rifiutare quest’ordine simbolico, che configura e dà significato alle esperienze umane nel suo complesso, con l’intenzione di caricarlo di un altro significato o magari dandogliene uno completamente agli antipodi col precedente?
In effetti, se vien messa in discussione la centralità della soggettività maschile l’intera struttura simbolica della cultura occidentale, con le sue relative figure mitiche maschili e soprattutto femminili, comincia a vacillare. Certo, l’esigenza di figure simboliche e mitiche a livello culturale e esistenziale rimane; ma dove andrebbero cercate queste figure che dovrebbero dar forma ad un diverso ordine simbolico?
Secondo la filosofa italiana Adriana Cavarero, ci sono due possibilità. Una potrebbe essere quella di generarle, e l’immaginazione poetica femminile è uno dei luoghi privilegiati in cui questa creazione avviene. L’altra, sarebbe invece quella di ‘rubarle’, cioè rilevarle dal loro contesto originario e trasformarle, investendole di differenti funzioni e significati. Ed è questo, infatti, quanto effettivamente avviene, anche se Cavarero vede in questo processo trasformativo una prerogativa quasi esclusiva della scrittura femminile[5]. Infatti, questo è quanto la stessa Cavarero fa ragionando su una serie di figure femminili che nei testi di Platone occupano un posto assai secondario: Penelope, Demetra, Diotima.
Ad esempio, lo stesso progetto che la Cavarero porta avanti è sotto il segno di Penelope, in quanto comprende allo stesso tempo un ‘disfare’ il pensiero patriarcale occidentale e un ‘tessere’ un nuovo ordine simbolico: da una parte, quindi, la Cavarero disfa la tela ormai logora dei padri e, dall’altra, tesse le figure di un nuovo ordine simbolico femminile. In questo senso la tela, ch’era simbolo di fedeltà nella Penelope originaria, si tramuta ora in simbolo di un nuovo universo valoriale, in cui le donne trovano una collocazione non più subordinata ma, politicamente e socialmente, più attiva. Ecco, dunque, il significato di quel progetto comune a diverse scrittrici italiane che è stato definito ‘revisionismo mitico’, per cui le vecchie storie, cambiando di significato, non fanno più parte dell’antico ordine simbolico patriarcale, ma, trasformandosi, partecipano piuttosto ad un ordine simbolico femminile.

Nel 1975 Rossana Ombres diede alle stampe la sua prima e unica opera teatrale, Orfeo che amò Orfeo, un lungo poema drammatico, in cui sono comprese sia sezioni in prosa che in versi, che si presenta non solo come un’irriverente parodia del mito classico, ma anche, attraverso l’uso di alcune caratteristiche stilistiche della poesia italiana degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, della cultura letteraria italiana.
Storicamente queste due decadi rappresentano, in ambito italiano, un periodo chiave per l’affermazione e il consolidamento del regime fascista ed hanno coinciso con la stagione poetica dell’ermetismo, caratterizzata da una dizione frammentata, fortemente lirica e evocativa ma piuttosto ‘oscura’ e impenetrabile riguardo al significato. Anche se politicamente e ideologicamente ambiguo, l’ermetismo è stato successivamente interpretato come una strategia poetica per una ‘indiretta resistenza’ alle mitologie forti e violente del regime, basate quest’ultime sull’enfasi collettivistica, sull’eroico, sul magniloquente.
In Ombres la discesa di Orfeo agli inferi nel vano tentativo di riportare alla luce l’amata Euridice si è così trasformata in una dissacrante allegoria dell’ermetismo, cioè di una stagione poetica che all’oppressione politica aveva opposto una poesia fatta di oscurità e di essenziale lirico canto. Interessante, in questo senso, il raffronto tra il poema ombresiano e quello di uno dei più illustri esponenti dell’ermetismo, Salvatore Quasimodo, intitolato Dialogo e pubblicato nel 1949 nella raccolta La vita non è sogno, in cui persiste in chiave moderna una lettura in chiave salvifica del mito di Orfeo. Narra, infatti, degli anni immediatamente successivi la guerra e la caduta del regime fascista, e il protagonista è insieme un soldato che ritorna a casa dal fronte e Orfeo che piange la sua perduta Euridice. Quasimodo, quindi, traspone l’immagine della perdita dell’amata Euridice con quella della perdita di vite umane e delle devastazioni prodotte dalla guerra, ma anche con quella della perdita del potere poetico di Orfeo, non più in grado, col suo canto, di riportare in vita i morti. Tuttavia, attraverso il ricordo dei luoghi della sua gioventù e il parziale recupero della sua voce poetica, la situazione di perdita si inverte e il poeta si prevede ora di nuovo in grado di riportare in vita Euridice recuperando così il suo antico ruolo.
Ma in opposizione esplicita all’atemporalità che caratterizza l’ermetismo in generale, ecco che Ombres decide di regolare la sua poesia in un contemporaneo e storicamente determinato presente, un’epoca segnata da un trionfale capitalismo consumistico e sempre più caratterizzata da volgari interessi individualistici dopo la caduta delle illusioni del dopoguerra. Tuttavia Ombres non fissa limiti temporali alla sua analisi. Infatti, se contestualizza il mito di Orfeo nel presente è soltanto per raggiungerlo più efficacemente nel passato e metterne in discussione i sottintesi presupposti, così come il relativo significato e l’uso che se ne è fatto all’interno dell’ordine simbolico tradizionale.
Nell’irriverente versione di Ombres, Orfeo è dunque un misogino narcisista dedito soltanto all’amore dell’immagine di sé. Le donne, infatti, lo ripugnano ed è con un senso di disgusto che esamina e considera la ‘sua’ Euridice: «La verità è che Orfeo aveva sempre pensato che le donne fossero insolenti, buie e miserabili»[6]. Per Ombres, tuttavia, questa caduta di Orfeo dall’Olimpo della poesia e la sua trasformazione in un misogino narcisista non è che un segno dei tempi, anche se, come da un’analisi di Adriana Cavarero del Simposio platoniano, in cui si riflette sul timore della morte e dell’immortalità dell’anima, vien posto come corollario il disprezzo per le donne come datrici di vita attraverso il corpo, destinato anch’esso a perire. Questo disprezzo, infatti, si lega con una forma di utero-invidia (evidente nel linguaggio maieutico usato dal Socrate platoniano), per cui il potere femminile di dare vita è sia oggetto di invidia che di disprezzo, perché più materiale che spirituale. Quindi, il potere di ridare vita dell’Orfeo classico, e soprattutto la sua capacità di riportare in vita una donna con la sua poesia, è da un lato un’usurpazione simbolica del ruolo generativo delle donne e, dall’altro, una stigmatizzazione di esso, in quanto ritenuto senza valore perché, a differenza della poesia, è più materiale che spirituale. Quindi, la definitiva perdita di Euridice è per Orfeo una punizione, affinché oltrepassi completamente la materialità, i desideri del corpo e la sua relativa vita. L’Orfeo ombresiano, infatti, rifiuta di riprendersi Euridice e si rifugia nell’Ade perché trova la sua gravidanza rivoltante e minacciosa: «Il feto che porta nella pancia le traspare [...]. La terra non deve avere più mostri!»[7].
Nel poema di Ombres, quindi, la poesia non tende più a magnificare e a riportare in vita Euridice, che viene ora presentata come un modello di donna amante di agi e automobili veloci - è morta infatti in un incidente d’auto - e che, in realtà, non è altro che un grottesco esempio di femminile alienazione, o di svilimento della donna quando non mira che a diventare ed essere l’incarnazione del desiderio maschile.
Una perdita d’identità, dunque, che fa da parallelo alla perdita dell’identità mitica di Orfeo, come simboleggia il suo smembramento da parte delle Menadi (in Ombres, delle prostitute romane) che, sentitesi rifiutate sessualmente, per vendetta lo uccidono e lo annullano facendogli perdere la voce. La voce del poeta, infatti, qui non è più quella di Orfeo (che «forse è finita nella gola di un uccello o, per estrema punizione, squittisce in un topo di chiavica»)[8], ma quella di Rossana, come specifica a chiare lettere la chiusa del poema: «Con l’anima tutta rattristata, Rossana poetessa questa storia ha scritto»[9].
Qui, la scrittura poetica di Ombres appare ‘scioccante’ per almeno due motivi. Il primo è il grottesco declassamento di un mito classico che interessa le origini stesse della poesia; l’altro è l’uso di una dizione relativamente ‘bassa’ e il tono intenzionalmente osceno, cioè due motivi che in genere non vengono considerati come ‘caratteristici’ della sensibilità lirica delle donne. Tuttavia, la stessa lunghezza del poema ombresiano risulta essere antitetica a ciò che comunemente ci si aspetta in una poesia di donna. Implicito, inoltre, nel revisionismo ombresiano, è l’atto d’accusa verso la poesia maschio-dominante, che nel Novecento è associata specialmente, anche se non esclusivamente, con la tradizione dell’ermetismo e i suoi postumi[10], come implicita è anche la valutazione che tale poesia appartenga alla tradizione patriarcale occidentale. In questa tradizione, infatti, Euridice esiste solo come oggetto passivo e tragico dell’amore di Orfeo. Per questo anche le forme linguistiche dell’ermetismo vengono contestate («Solo il vento ha la spavalderia di dire Orfeo nei suoi ululati, ma così criptico è il suo linguaggio»[11]). La lingua di Ombres, infatti, non mostra alcuna ambiguità ma è una lingua ‘che castiga’: la sua violenza non è nascosta o mascherata dalla rappresentazione simbolica ma è espressione di un diretto ed esplicito sarcasmo che ricorda un Giovenale o un Parini dei nostri giorni. La scrittura ombresiana, con il suo filtro rigoroso, non consente concessioni alle emozioni, mirando sempre all’autonomia del risultato stilistico e all’incisività del segno espressivo. Così, insieme alla mitologica figura di Orfeo della poesia maschio-dominante, Ombres rifiuta sia la rarefatta e criptica dizione dell’ermetismo sia il gioco e le potenzialità polisemiche del linguaggio dei poeti della neoavanguardia, in primis Edoardo Sanguineti. La sua, dunque, non è più ‘bella’ poesia, ma una ‘cattiva’ poesia caratterizzata da una sferzante tendenza scatologica, attenta alle più basse funzioni corporali e dove anche il sesso (e la sessualità) viene scientemente degradato a funzione fisiologica alquanto repellente. D’altronde, è il pregiudizio estetico insito nella poesia maschile che costringe Ombres a questo tipo linguaggio, il cui fine specifico è proprio quello di sovvertire questo pregiudizio e che in tal modo rende il revisionismo mitico ombresiano uno degli esempi più liberi e originali tra le scritture di donne[12].

[1] L. Re, Mythic Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, in “Quaderni d’Italianistica”, Canadian Society for Italian Studies, vol. 14, n. 1, 1993, pp. 75-109; riedito in M.O. Marotti (Ed.), Italian Women Writers from the Renaissance to the Present. Revising the Canon, Pennsylvania State University Press, University Park (PA) 1996, pp. 187-234.
[2] Ibidem, p. 193.
[3] A. Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 8.
[4] L. Re, Mythic Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, cit., p. 193.
[5] Ibidem.
[6] R. Ombres, Orfeo che amò Orfeo, in “Almanacco allo Specchio”, Quarta Edizione, Mondadori, Milano 1975, pp. 337-355.
[7] Ibidem, p. 345.
[8] Ibidem, p. 350.
[9] Ibidem, p. 353.
[10] L. Re, Mythic Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, cit., p. 193.
[11] R. Ombres, Orfeo che amò Orfeo, cit., p. 353.
[12] L. Re, Mythic Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, cit., p. 199.