In un
importante saggio del 1993,
in cui l’italianista Lucia Re analizzava l’opera poetica
di quattro autorevoli scrittrici italiane quali Maria Luisa Spaziani, Rosita
Copioli, Amelia Rosselli e Rossana Ombres, appariva per la prima volta il
termine di ‘Mythic revisionism’, concetto che oggi sottende ad una modalità di
lettura della scrittura poetico-narrativa specificamente (anche se non
esclusivamente) femminile[1].
Il fine
dichiarato dalla prof. Re era allora quello di basarsi sulla differenza di
genere per riconsiderare la scrittura femminile - ma in termini né riduttivi né
metafisici - e quindi dar luogo all’idea che possa esistere un’estetica
specificamente ‘femminile’ che si manifesterebbe attraverso la rielaborazione
di alcune mitologie, e precisamente quelle che stanno alla base della cultura maschio-dominante
e di tipo patriarcale affermatasi e consolidatasi nei secoli in Occidente.
Già nella
scrittura maschile, d’altronde, la rielaborazione di antichi miti è stata una
pratica ampiamente frequentata: ad esempio, l’Ulisse omerico si è trasformato
nell’Ulisse di Joyce, l’Edipo sofocleo in quello di Freud, il Don Giovanni di
Molière in quello di Mozart o Kierkegaard[2].
Tuttavia, ammesso anche che l’ordine simbolico può trovare altre forme di
espressione, rimane incontestabile quanto il potere di una figura simbolica sia
incomparabilmente superiore per forza comunicativa e evocativa a qualsiasi
altra. Le figure mitiche hanno, infatti, la capacità di concentrare al loro
interno una specie di incarnazione paradigmatica dell’ordine simbolico che le
informa.
Il fatto è che
quest’ordine simbolico, pur soggetto a mutazioni, in Italia è rimasto nel segno
della cultura patriarcale, esprimendo un sistema valoriale specifico, cioè
quello maschio-dominante[3], in
cui il soggetto maschile, pur dichiarandosi di essere neutro e universale,
esprime sempre la propria centralità, individuando intorno a sé un mondo configurato
secondo la propria immagine e le proprie necessità. Ovviamente, anche le figure
mitiche femminili che trovano posto all’interno di questo sistema simbolico
fanno riferimento al soggetto maschile, per cui Ulisse avrà la sua Penelope,
Zeus la sua Era, Don Giovanni la sua Zerlina, la sua donn’Anna e la sua donna
Elvira[4].
Ma cosa può accadere
se qualcuno improvvisamente decide di rifiutare quest’ordine simbolico, che
configura e dà significato alle esperienze umane nel suo complesso, con
l’intenzione di caricarlo di un altro significato o magari dandogliene uno completamente
agli antipodi col precedente?
In effetti, se
vien messa in discussione la centralità della soggettività maschile l’intera
struttura simbolica della cultura occidentale, con le sue relative figure
mitiche maschili e soprattutto femminili, comincia a vacillare. Certo, l’esigenza
di figure simboliche e mitiche a livello culturale e esistenziale rimane; ma
dove andrebbero cercate queste figure che dovrebbero dar forma ad un diverso
ordine simbolico?
Secondo la
filosofa italiana Adriana Cavarero, ci sono due possibilità. Una potrebbe
essere quella di generarle, e l’immaginazione poetica femminile è uno dei
luoghi privilegiati in cui questa creazione avviene. L’altra, sarebbe invece quella
di ‘rubarle’, cioè rilevarle dal loro contesto originario e trasformarle,
investendole di differenti funzioni e significati. Ed è questo, infatti, quanto
effettivamente avviene, anche se Cavarero vede in questo processo trasformativo
una prerogativa quasi esclusiva della scrittura femminile[5].
Infatti, questo è quanto la stessa Cavarero fa ragionando su una serie di
figure femminili che nei testi di Platone occupano un posto assai secondario:
Penelope, Demetra, Diotima.
Ad esempio, lo
stesso progetto che la
Cavarero porta avanti è sotto il segno di Penelope, in quanto
comprende allo stesso tempo un ‘disfare’ il pensiero patriarcale occidentale e un
‘tessere’ un nuovo ordine simbolico: da una parte, quindi, la Cavarero disfa la tela
ormai logora dei padri e, dall’altra, tesse le figure di un nuovo ordine
simbolico femminile. In questo senso la tela, ch’era simbolo di fedeltà nella
Penelope originaria, si tramuta ora in simbolo di un nuovo universo valoriale,
in cui le donne trovano una collocazione non più subordinata ma, politicamente
e socialmente, più attiva. Ecco, dunque, il significato di quel progetto comune
a diverse scrittrici italiane che è stato definito ‘revisionismo mitico’, per
cui le vecchie storie, cambiando di significato, non fanno più parte
dell’antico ordine simbolico patriarcale, ma, trasformandosi, partecipano piuttosto
ad un ordine simbolico femminile.
Nel 1975
Rossana Ombres diede alle stampe la sua prima e unica opera teatrale, Orfeo che amò Orfeo, un lungo poema
drammatico, in cui sono comprese sia sezioni in prosa che in versi, che si
presenta non solo come un’irriverente parodia del mito classico, ma anche,
attraverso l’uso di alcune caratteristiche stilistiche della poesia italiana
degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, della cultura letteraria italiana.
Storicamente
queste due decadi rappresentano, in ambito italiano, un periodo chiave per
l’affermazione e il consolidamento del regime fascista ed hanno coinciso con la
stagione poetica dell’ermetismo, caratterizzata da una dizione frammentata, fortemente
lirica e evocativa ma piuttosto ‘oscura’ e impenetrabile riguardo al
significato. Anche se politicamente e ideologicamente ambiguo, l’ermetismo è
stato successivamente interpretato come una strategia poetica per una ‘indiretta
resistenza’ alle mitologie forti e violente del regime, basate quest’ultime sull’enfasi
collettivistica, sull’eroico, sul magniloquente.
In Ombres la
discesa di Orfeo agli inferi nel vano tentativo di riportare alla luce l’amata
Euridice si è così trasformata in una dissacrante allegoria dell’ermetismo,
cioè di una stagione poetica che all’oppressione politica aveva opposto una
poesia fatta di oscurità e di essenziale lirico canto. Interessante, in questo
senso, il raffronto tra il poema ombresiano e quello di uno dei più illustri esponenti
dell’ermetismo, Salvatore Quasimodo, intitolato Dialogo e pubblicato nel 1949 nella raccolta La vita non è sogno, in cui persiste in chiave moderna una lettura
in chiave salvifica del mito di Orfeo. Narra, infatti, degli anni immediatamente
successivi la guerra e la caduta del regime fascista, e il protagonista è
insieme un soldato che ritorna a casa dal fronte e Orfeo che piange la sua perduta
Euridice. Quasimodo, quindi, traspone l’immagine della perdita dell’amata
Euridice con quella della perdita di vite umane e delle devastazioni prodotte
dalla guerra, ma anche con quella della perdita del potere poetico di Orfeo, non
più in grado, col suo canto, di riportare in vita i morti. Tuttavia, attraverso
il ricordo dei luoghi della sua gioventù e il parziale recupero della sua voce
poetica, la situazione di perdita si inverte e il poeta si prevede ora di nuovo
in grado di riportare in vita Euridice recuperando così il suo antico ruolo.
Ma in
opposizione esplicita all’atemporalità che caratterizza l’ermetismo in generale,
ecco che Ombres decide di regolare la sua poesia in un contemporaneo e
storicamente determinato presente, un’epoca segnata da un trionfale capitalismo
consumistico e sempre più caratterizzata da volgari interessi individualistici
dopo la caduta delle illusioni del dopoguerra. Tuttavia Ombres non fissa limiti
temporali alla sua analisi. Infatti, se contestualizza il mito di Orfeo nel
presente è soltanto per raggiungerlo più efficacemente nel passato e metterne
in discussione i sottintesi presupposti, così come il relativo significato e
l’uso che se ne è fatto all’interno dell’ordine simbolico tradizionale.
Nell’irriverente
versione di Ombres, Orfeo è dunque un misogino narcisista dedito soltanto
all’amore dell’immagine di sé. Le donne, infatti, lo ripugnano ed è con un
senso di disgusto che esamina e considera la ‘sua’ Euridice: «La verità è che
Orfeo aveva sempre pensato che le donne fossero insolenti, buie e miserabili»[6]. Per
Ombres, tuttavia, questa caduta di Orfeo dall’Olimpo della poesia e la sua
trasformazione in un misogino narcisista non è che un segno dei tempi, anche
se, come da un’analisi di Adriana Cavarero del Simposio platoniano, in cui si riflette sul timore della morte e
dell’immortalità dell’anima, vien posto come corollario il disprezzo per le
donne come datrici di vita attraverso il corpo, destinato anch’esso a perire.
Questo disprezzo, infatti, si lega con una forma di utero-invidia (evidente nel
linguaggio maieutico usato dal Socrate platoniano), per cui il potere femminile
di dare vita è sia oggetto di invidia che di disprezzo, perché più materiale
che spirituale. Quindi, il potere di ridare vita dell’Orfeo classico, e
soprattutto la sua capacità di riportare in vita una donna con la sua poesia, è
da un lato un’usurpazione simbolica del ruolo generativo delle donne e,
dall’altro, una stigmatizzazione di esso, in quanto ritenuto senza valore
perché, a differenza della poesia, è più materiale che spirituale. Quindi, la
definitiva perdita di Euridice è per Orfeo una punizione, affinché oltrepassi
completamente la materialità, i desideri del corpo e la sua relativa vita.
L’Orfeo ombresiano, infatti, rifiuta di riprendersi Euridice e si rifugia
nell’Ade perché trova la sua gravidanza rivoltante e minacciosa: «Il feto che
porta nella pancia le traspare [...]. La terra non deve avere più mostri!»[7].
Nel poema di
Ombres, quindi, la poesia non tende più a magnificare e a riportare in vita Euridice,
che viene ora presentata come un modello di donna amante di agi e automobili
veloci - è morta infatti in un incidente d’auto - e che, in realtà, non è altro
che un grottesco esempio di femminile alienazione, o di svilimento della donna
quando non mira che a diventare ed essere l’incarnazione del desiderio
maschile.
Una perdita
d’identità, dunque, che fa da parallelo alla perdita dell’identità mitica di
Orfeo, come simboleggia il suo smembramento da parte delle Menadi (in Ombres,
delle prostitute romane) che, sentitesi rifiutate sessualmente, per vendetta lo
uccidono e lo annullano facendogli perdere la voce. La voce del poeta, infatti,
qui non è più quella di Orfeo (che «forse è finita nella gola di un uccello o,
per estrema punizione, squittisce in un topo di chiavica»)[8], ma
quella di Rossana, come specifica a chiare lettere la chiusa del poema: «Con l’anima
tutta rattristata, Rossana poetessa questa storia ha scritto»[9].
Qui, la
scrittura poetica di Ombres appare ‘scioccante’ per almeno due motivi. Il primo
è il grottesco declassamento di un mito classico che interessa le origini
stesse della poesia; l’altro è l’uso di una dizione relativamente ‘bassa’ e il
tono intenzionalmente osceno, cioè due motivi che in genere non vengono considerati
come ‘caratteristici’ della sensibilità lirica delle donne. Tuttavia, la stessa
lunghezza del poema ombresiano risulta essere antitetica a ciò che comunemente
ci si aspetta in una poesia di donna. Implicito, inoltre, nel revisionismo
ombresiano, è l’atto d’accusa verso la poesia maschio-dominante, che nel
Novecento è associata specialmente, anche se non esclusivamente, con la
tradizione dell’ermetismo e i suoi postumi[10],
come implicita è anche la valutazione che tale poesia appartenga alla
tradizione patriarcale occidentale. In questa tradizione, infatti, Euridice
esiste solo come oggetto passivo e tragico dell’amore di Orfeo. Per questo
anche le forme linguistiche dell’ermetismo vengono contestate («Solo il vento
ha la spavalderia di dire Orfeo nei suoi ululati, ma così criptico è il suo
linguaggio»[11]). La lingua di Ombres,
infatti, non mostra alcuna ambiguità ma è una lingua ‘che castiga’: la sua
violenza non è nascosta o mascherata dalla rappresentazione simbolica ma è
espressione di un diretto ed esplicito sarcasmo che ricorda un Giovenale o un
Parini dei nostri giorni. La scrittura ombresiana, con il suo filtro rigoroso,
non consente concessioni alle emozioni, mirando sempre all’autonomia del
risultato stilistico e all’incisività del segno espressivo. Così, insieme alla
mitologica figura di Orfeo della poesia maschio-dominante, Ombres rifiuta sia
la rarefatta e criptica dizione dell’ermetismo sia il gioco e le potenzialità
polisemiche del linguaggio dei poeti della neoavanguardia, in primis Edoardo Sanguineti. La sua, dunque, non è più ‘bella’
poesia, ma una ‘cattiva’ poesia caratterizzata da una sferzante tendenza scatologica,
attenta alle più basse funzioni corporali e dove anche il sesso (e la
sessualità) viene scientemente degradato a funzione fisiologica alquanto repellente.
D’altronde, è il pregiudizio estetico insito nella poesia maschile che costringe
Ombres a questo tipo linguaggio, il cui fine specifico è proprio quello di
sovvertire questo pregiudizio e che in tal modo rende il revisionismo mitico ombresiano
uno degli esempi più liberi e originali tra le scritture di donne[12].
[1] L. Re, Mythic
Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, in “Quaderni
d’Italianistica”, Canadian Society for Italian Studies, vol. 14, n. 1, 1993,
pp. 75-109; riedito in M.O. Marotti
(Ed.), Italian Women Writers from the
Renaissance to the Present. Revising the Canon, Pennsylvania
State University
Press, University Park
(PA) 1996, pp. 187-234.
[2]
Ibidem, p. 193.
[3] A. Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica,
Editori Riuniti, Roma 1991, p. 8.
[4] L. Re, Mythic
Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, cit., p. 193.
[5]
Ibidem.
[6] R. Ombres, Orfeo che amò Orfeo, in “Almanacco allo Specchio”, Quarta Edizione, Mondadori, Milano 1975,
pp. 337-355.
[7] Ibidem, p. 345.
[8] Ibidem, p. 350.
[9] Ibidem, p. 353.
[10] L. Re, Mythic
Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, cit., p. 193.
[11] R. Ombres, Orfeo che amò Orfeo, cit., p. 353.
[12] L. Re, Mythic
Revisionism: Women Poets and Philosophers in Italy Today, cit., p. 199.
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