venerdì 15 maggio 2015

Principessa Giacinta (1970). La narrativa ‘sperimentale’ di Rossana Ombres



Principessa Giacinta (1970). La narrativa ‘sperimentale’ di Rossana Ombres

Come già accennato in alcuni miei articoli qui pubblicati, nel 1970 Rossana Ombres giungeva alla narrativa dopo un lungo e laborioso esercizio di poesia che, senza chiudersi in quei calligrafici e improbabili esercizi stilistici molto in voga a quel tempo con la poesia ermetica epigonale italiana, si era lentamente insinuato, ‘osmotizzandosi’, nei caratteri essenziali della sua scrittura narrativa[1]. Tuttavia, la dimensione anche narrativa di alcune sue liriche, si pensi ad esempio a quelle incluse in L’ipotesi di Agar (1968), dimensione poi perfezionata in Le belle statuine (1975)[2], ma anche nella sua opera teatrale Orfeo che amò Orfeo (1975), in cui lirica e prosa si alternano, facevano già presagire questa sua ‘conversione’ alla narrativa, cui Ombres si dedicherà in seguito in modo pressoché esclusivo.
Principessa Giacinta (1970), il suo primo romanzo, con cui tra l’altro Ombres vinse il Premio Sila ad ex aequo con Loris Bonomi, fu dunque una rivelazione ed ebbe un notevolissimo successo di critica[3]. Nell’assegnazione del premio la giuria, presieduta da Carlo Bo e composta dal fior fiore della critica letteraria di quegli anni (vi presero parte critici del calibro di Geno Pampaloni, Enrico Falqui, Angelo Maria Ripellino, Rosario Villari e Walter Pedullà), motivò la premiazione affermando che nell’opera «traluce la ricerca linguistica del più agguerrito sperimentalismo italiano»[4].
In realtà la formazione e la maturazione stilistica di Ombres come poeta, dà un carattere più che sperimentale al linguaggio narrativo ombresiano rispetto a quello adottato dalla coeva letteratura neoavanguardista[5]. Il fatto è che la grande capacità di controllo metrico e sintattico, insieme all’esuberanza dell’espressione e della fraseologia ombresiana, arrivano ad un livello tale da esasperare e andare ben oltre un suo presunto stile d’avanguardia, fondendo modi, stili e esperienze intellettuali che, apparentemente distanti fra loro e spesso incompatibili, sono invece il prodotto di un retroterra e di un bagaglio culturale talmente erudito che, tra continui rinvii letterari e allusioni anche bibliche (talmudiche, a volte) a sfondo simbolico e mitico, soltanto un lettore estremamente attento può ricostruire in forma unitaria.
Ciò che maggiormente distingue lo ‘sperimentalismo’ ombresiano dalla narrativa sperimentalista di quegli anni è, tuttavia, più che linguistico, di tipo culturale e tematico, come ebbe a dire con acuta finezza Cesare Segre nell’elzeviro a lei dedicato alcuni giorni dopo la sua morte[6]. 
La vicenda di Principessa Giacinta, narrata rigorosamente in prima persona, e dunque in presa diretta, si articola esclusivamente sul caos fisico e psichico di un misterioso personaggio (G), una non più giovane intellettuale che, «chiusa al sole e all’aria» nel suo appartamento romano, vive soltanto nel «regno del sotterraneo e dell’oscurità», come intelligentemente avvertì e comprese Giuseppe Del Colle all’uscita del libro[7].
È dunque una programmata ‘discesa agli inferi’, ossia un’aspirazione della protagonista ad immergersi nella propria interiorità mettendo in atto quel processo interiore che, già teorizzato negli anni Venti da Sigmund Freud con il concetto di ‘pulsione di morte’[8] e ripreso da Georges Bataille con la cosiddetta ‘poetica dell’informe’[9], è stato in seguito ben interpretato e magistralmente esplicato da Camille Paglia nel suo straordinario e originalissimo Sexual Personae[10]. Infatti, per l’antropologa statunitense accade spesso che nella scrittura di donna il corpo, o meglio, la sensibilità corporea, prenda il sopravvento e aspiri a tornare all'indistinto organico della materia, quando l'ordine razionale e apollineo cede alle forze caotiche e ctonie del dionisiaco, la razionalità alle istanze più primitive e selvagge dell'eros inconscio.
Il romanzo, che come accennato potrebbe apparire, sul piano della struttura e della story, privo di organicità, in realtà è il pregevole risultato di una sottile e provata sapienza letteraria: parola per parola, aggettivo per aggettivo, scarti sintattici e continue digressioni formano un tessuto narrativo la cui trama, specialmente nella prima parte, è pura invenzione linguistica, oltre che tematica. Ed è in questa capacità inventiva che il critico Mario Lunetta individua la formula capace di sintetizzare, con sufficiente correttezza, l’itinerario intellettuale e creativo che Rossana Ombres percorre in questo romanzo. In questa esuberanza e invenzione narrativa sta appunto quella che Lunetta definisce ‘la ribellione fantastica’ di Rossana Ombres[11], cioè un ‘eccessivo’ uso del fantastico[12] che diviene modalità narrativa per dare progressivamente forma letteraria a un delirio - in buona parte frutto di una mente fortemente schizoide - costantemente in atto nella protagonista.
Principessa Giacinta, dunque, non è un’opera di facile lettura, perché in essa vi si intrecciano il racconto di un percorso di vita, che si delinea progressivamente dalle parole spesso sconnesse della protagonista, e la minuziosa e maniacale descrizione del raggiungimento di una degenerazione fisica e psichica che prendono corpo, indissolubilmente uniti, da una scrittura rigorosa e calibratissima.
L’inquietudine femminile e la progressiva perdita della propria identità, l’attrazione-repulsione verso la corporeità sessuale e l’evasione nell’immaginario, son tutti temi che si poi riflettono, nella scrittura ombresiana, nella condizione di auto-segregazione in cui si è posta la protagonista, una giornalista scrittrice[13] che ora soffre di una grave forma di agorafobia e di un’esasperante preoccupazione per la conservazione della propria verginità, oltre ad essere gravemente afflitta da complicate frustrazioni per una insoddisfatta aspirazione alla maternità e dalla perdita di un manoscritto (da cui probabilmente sta traendo un romanzo autobiografico).
Infine, portata alla dissociazione da se stessa, assumendo sempre più regolarmente un’identità alternativa nella figura di Katharina von Bora, l’ex monaca del Cinquecento andata in sposa al riformatore Martin Lutero, la protagonista, di cui non si conoscerà mai il nome, si trasforma, subisce una metamorfosi: assistiamo in tal modo ad un’immersione in quello che l’antropologa statunitense Camille Paglia ha genialmente definito l’elemento ctonio, da cui la donna (e qui il genere sessuato conta eccome) riemergerà, infine, come rigenerata.
Nel corso del racconto emergono poco a poco altri elementi che teoricamente potrebbero completare e definire meglio il quadro, che però rimane indefinito. Ad esempio, si viene a sapere che la protagonista ha avuto un incidente d’auto riportandone una grave contusione cranica; che ha subito un furto nel suo appartamento che ha lasciato in lei i segni di un’astiosa profanazione; che ha pratica di malattie, cure farmacologiche ossessive e ospedali, oltre a cibarsi di ‘pappine’ e omogeneizzati per neonati per prevenire o ritardare i segni dell’invecchiamento. Inoltre, i rapporti che la donna intrattiene con l’esterno si limitano ad alcune lettere, probabilmente mai imbucate, a brandelli di conversazione registrati col magnetofono, a lunghe telefonate con un probabile sposo promesso (E) che risponde, nel prosieguo del racconto, con voce sempre più fievole e sommessa. Intanto, intorno a G, sui mobili, sui tendaggi, sulla scrivania e sulla sua macchina da scrivere, cominciano lentamente a proliferare minuscoli insetti, esseri vischiosi e retrattili (gli ‘scarabangeli’) che si annunciano con «gridetti di barbagianni» e sembrano mossi da un’oscura determinazione a ridurre, giorno dopo giorno, il suo spazio vitale. Se la materia del romanzo è così sfuggente e gelatinosa[14], il linguaggio che lo sostiene è tuttavia compatto e al tempo stesso prezioso e sottoposto ad un rigoroso controllo.
Ma cosa fa Ombres quando, per la prima volta in prosa, si occupa della condizione femminile, e per giunta di una intellettuale, se non trascrivere minuziosamente le sensazioni di un corpo sessualmente definito in un discorso narrativo?  
Alla varietà di letture, se ne potrebbe tentare anche una di tipo ‘mistico’, seguendo la nozione di ‘divinità delle donne’ e le indicazioni elaborate dalla filosofa Luce Irigaray[15], secondo cui nell’isolamento e nella clausura che la protagonista si è imposta si celebra la divinità del proprio genere che, come esperienza specificamente femminile, si rivela essere un trascendere i limiti dell’umano.
Il fatto è che dando forma all’abietto, semiotico per eccellenza, con una particolare predilezione per gli aspetti corporei e più viscerali del corpo femminile, Ombres si dichiara apertamente contro quelle modalità religiose e poetiche del simbolico che, per Julia Kristeva, sono i soli modi (patriarcali) di contenere l’abietto[16]. Ciò significa che al suo esordio narrativo Ombres ha già ben chiaro che il punto di partenza per una ridefinizione della soggettività femminile è una nuova forma di materialismo da cui deve prendere forma un nuovo concetto di materialità corporea, sottolineando la struttura incarnata e quindi sessualmente differenziata del soggetto parlante. La narrazione in prima persona di Principessa Giacinta è, infatti, saldamente legata all’influenza femminista di quegli anni, quando le donne, rivendicando il loro diritto a rappresentarsi, lo fanno affermando risolutamente la loro identità sessuata[17]. Ecco, dunque, che il monologo in prima persona di una protagonista donna esclude, in Ombres, la costruzione di una narrazione coerente, e ciò dà anche un’idea di ciò che significa, nella narrativa femminile, far uso del fantastico. Tutto quel che vien detto dalla protagonista risulta, infatti, dubbio, a tal punto che il lettore deve ricostruire in proprio quanto succede, ma con l’ausilio di alcuni puntuali e costanti punti di riferimento, che Ombres, seguendo quello che Diderot avrebbe chiamato l’‘ordine sordo’ dei temi, delle riprese e delle variazioni, dissemina in tutta la trama del racconto dotandolo di un’impressionante solidità architettonica[18].
Interessante, in tal senso, il raffronto che l’italianista Danielle Hipkins propone fra Principessa Giacinta e Il doppio regno, un’opera del 1991 di Paola Capriolo che, presentando anch’essa un soggetto femminile all’interno di un luogo chiuso, ‘sacro’ e misterioso, risulta tematicamente simile al romanzo ombresiano[19]. Anche se entrambi i romanzi hanno forma diaristica, le due protagoniste contrastano tra loro per un differente livello di autoconsapevolezza. Infatti, con paradossale chiarezza di ragionamento la protagonista della Capriolo invita il lettore a desumere con lei ciò che costituisce la sua esperienza passata e quella presente. Al contrario, in Principessa la protagonista ‘costringe’ il lettore a indagare sul suo presente e su ciò che è stato il suo passato ma senza curarsene affatto. Inoltre, se nella narrazione della Capriolo gli spazi fisici sono definiti e facilmente individuabili, in Principessa, dove la protagonista trascorre la maggior parte del suo tempo in un appartamento a Roma o in una stanza d’albergo a Venezia, questi due spazi si confondono fino a diventare la stessa cosa, perché non v’è alcuna indicazione, né spaziale né temporale, dell’eventuale passaggio da un luogo all’altro. Lo spazio ombresiano appare quindi - secondo la brillante immagine offerta dalla dt. Hipkins - come un disegno di Escher, ossia una struttura da sogno (quindi più mentale che reale) in cui uno spazio interno si dispiega in un altro, senza che mai si possa essere consapevoli del luogo fisico che il protagonista-narratore sta attraversando[20]. Lo spazio diventa pertanto uno spazio per un’introspezione più intensa e per una più serrata rinegoziazione dell’identità femminile, con la conseguenza, però, che nel lettore rimane in sospeso, o viene messo in discussione, il confine stesso che dovrebbe separare e far distinguere sanità mentale e follia. Quando poi il lettore incontra la doppia identità della protagonista, quando cioè questa si dissocia da sé e si identifica sempre più in Katharina von Bora, non può far altro che prestarsi al ‘malvagio’ e irrispettoso gioco d’intelligenza che Ombres mette in campo, obbligandolo a ricorrere alla storia e alla filologia per spiegarsi la vicenda.
La donna che Rossana Ombres esprime con Principessa Giacinta è, dunque, una donna che ha perso la memoria, non distingue più la realtà dal sogno e risulta, sostanzialmente, affetta da una schiacciante schizofrenia. Inoltre, sembra che non abbia futuro, perché manca delle facoltà che possono metterla in grado di superare questo continuo  stato di prostrante delirio.
Ma in Principessa, secondo le eloquenti parole della giuria del Premio Sila, si parla anche del destino comune dell’uomo contemporaneo, incapace di riconoscersi nel mondo in cui è costretto a vivere[21].
Il romanzo è anche il racconto di una creatività in crisi: gli ‘scarabangeli’, infatti, o ‘loro’, come li chiama la protagonista, bloccano la sua scrittura e la sua lettura con il loro proliferare e dilagare sui libri e sulla scrivania di lei. Pian piano questi esseri minuscoli s’impadroniscono di tutti gli angoli della stanza, le imbrattano i libri, s’insediano nella sua macchina da scrivere, nelle scarpe, nelle abatjour. Il neologismo che Ombres adotta per designare queste creature (coniato in realtà per L’ipotesi di Agar), le cui mutazioni e migrazioni la protagonista guarda con un misto di orrore e di fascino, rivela insieme il segno di un timore religioso per gli angeli custodi e un senso di repulsione fisica per gli insetti. Ma, a ben vedere, anche qui troviamo quel senso di ambiguità che denota un po’ tutta la scrittura ombresiana di questo romanzo. La stessa ambiguità la ritroviamo, infatti, nella rappresentazione del corpo e delle funzionalità corporee. A volte sembra si tratti di una custodia da preservare a tutti i costi (come i gigli, simbolo di purezza, di cui la protagonista si attornia), con un ossessivo rifiuto del sesso e, accanto, una esagerata assunzione di farmaci il cui fine è soltanto quello di contrastare il naturale processo di invecchiamento e di decadimento fisico. Nello stesso tempo, però, la protagonista, dopo aver rifiutato e fuggito la specificità del proprio corpo sessuato, assumendo l’identità di Katherina von Bora, madre di molti figli e moglie premurosa dell’uomo che ha lanciato la maggior sfida alla fede cattolica, manifesta un processo mentale che denota una diversa concezione del corpo, non più di vergine ma di madre e sposa[22]. È qui, infatti, che la scrittura di Ombres comincia a far emergere un linguaggio di tipo simbolico-religioso, che, come espressione del tentativo di una riappropriazione del sé, trasforma il diario della protagonista in una elucubrazione mistico-psicologica (con grande irriverenza sia per la religione che per la psicanalisi) che trova la sua più consona e ideale espressione nel ‘puramente’ fantastico, come già la dt. Hipkins ha acutamente segnalato [23]. 
Sebbene Principessa Giacinta descriva minuziosamente lo stato di psicosi di cui è vittima la protagonista, è ben lungi dall’essere il racconto di una fuga dalla realtà, anche se dolorosa. É, piuttosto, l’espressione e la celebrazione di un ‘infinito sé’ femminile, come la Hipkins ha mirabilmente definito il romanzo[24]. Infatti, anche se questo sé subisce perdite e traumi, Rossana Ombres non intende affatto basare il suo romanzo su tali sofferenze. Rivelatore e illuminante, in tal senso, può essere già il titolo: Giacinta (da ‘giacinto’), nel linguaggio dei fiori significa  ‘separazione’, può anche significare ‘gioco’, ‘divertimento’. E che cosa fa Ombres, nel manipolare abilmente le sue carte, se non dar vita ad un creativo sistema di rimandi mnemonici in cui l’aspetto ludico ha una parte tutt’altro che trascurabile? Principessa Giacinta rimanda, infatti, al titolo di una litografia realizzata per una rappresentazione teatrale dal pittore art nouveau Alphonse Mucha (che Ombres inserirà poi tra le sue ‘cartoline’ di Le belle statuine), in cui una regale e splendida dama, con alle spalle la rappresentazione del cosmo, tiene in mano un astrolabio, strumento-simbolo dei navigatori che indica la posizione delle stelle viste da una certa latitudine. Uno strumento di calcolo, dunque, con cui i marinai potevano riconoscere la loro posizione dalla disposizione degli astri, ma anche, e soprattutto, un misuratore di relazioni armoniche che Giacinta (cioè Ombres) è in grado di usare e ne è pienamente consapevole, come si vede dal modo sicuro ed elegante con cui tiene in mano lo strumento.
Ma ‘principessa’, termine che indica insieme lo status regale ma anche il genere del personaggio, significa anche che i suoi poteri (di creatività) sono limitati dalla sua identità sessuale. Tuttavia, il fatto che la protagonista del romanzo si sia autoreclusa in uno spazio-recinto che è anche luogo protettivo, rimanda alla nozione di creatività, ossia a uno spazio in cui dei mondi possono essere creati[25]. L’incanto della recinzione è, infatti, l’essenza di questo romanzo, e l’ammissione esuberante della natura sessuata di questa recinzione alla fine non può che condurre verso una più decisa uscita da questo recinto. Ed è ciò che, con uno slancio di geniale creatività narrativa, Ombres riesce a fare: attraverso l’uso del fantastico, con cui opera, all’interno del racconto, una frammentazione della dimensione spaziale, Ombres rompe e travalica i confini della narrativa canonica italiana. Ecco, dunque, che rompendo con le nozioni spaziali di interno e esterno l’immaginazione femminile può trascendere i limiti prefissati, e che questo ‘oltrepassare il limite’ del ‘recinto’ esistenziale imposto dalla cultura patriarcale tradizionale emerge come un potente modello per la scrittura non solo delle donne ma di chi ancora viene emarginato come minoranza.
Il romanzo termina su un ultimo brandello di frase della protagonista, che rimane in attesa di consumare un’improbabile notte di nozze. Ma anche questa è una ‘ipotesi di Agar’, per rifarci al titolo della raccolta poetica che precede Principessa Giacinta, che, a sua volta, rimane un’opera ‘aperta’ e soggetta a una svariata gamma di significati. Una prova quindi di alta complessità strutturale che, improntata sulla decostruzione della personalità di un’intellettuale, senza però mai scadere nell’artificiosità fine a se stessa, è un’ennesima prova dell’elegante e affascinante scrittura ombresiana, davvero pazientemente e ‘scientificamente’ preparata da anni di sapiente costruzione poetica[26].

  

































  

Alphonse Mucha, Princezna Hyacinta
(the original lithograph was printed in Prague, 1911)



[1] A.M. Morace, Orbite novecentesche, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001, p. 311.
[2] A breve dedicherò un articolo alla poesia ombresiana (ndr).
[4] T. Cornacchioli, M. Tolone, Il Premio Sila: cultura e impegno civile nella storia di un premio letterario meridionale, Pellegrini, Cosenza 1997, p. 124.
[5] Il riferimento, ovviamente, è al Gruppo 63, i cui nomi di punta erano Nanni Balestrini, Renato Barilli, Edoardo Sanguineti, Carlo Porta, Luciano Anceschi, Alberto Arbasino, Umberto Eco e altri ancora. Al convegno all’hotel Zagarella di Palermo, atto fondativo del gruppo (3-8 ottobre 1963), vi partecipò anche Rossana Ombres (ndr).
[6] C. Segre, Le tante radici di Rossana Ombres, in “Corriere della Sera”, 7 agosto 2009, p. 37.
[7] G. Del Colle, Il delirio oscuro di Rossana Ombres, in “Stampa Sera”, 20-21 marzo 1970, p. 3.
[8] Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, v. IX, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 193.
[9] Cfr. G. Bataille, Informe, in ‘Documents’, 7, 1929 ; tr. it. a cura di Sergio Finzi, Documents, Dedalo, Bari 1974, p. 165.
[10] C. Paglia, Sexual Personae: Art and Decadence from Nefertiti to Emily Dickinson, Yale University Press, London 1990; tr. it. Einaudi 1993.
[11] M. Lunetta, Poligrafia stilistica di R. Ombres, in G. Grana (a cura di), Novecento. I contemporanei, vol. X, Marzorati, Milano 1979, p. 10167.
[12] Cfr. D.E. Hipkins, Excessively Fantastic? Rossana Ombres’s Serenata, in F. Billiani, G. Sulis (Eds), The Italian Gothic and Fantastic. Encounters and Rewritings of Narrative Traditions, Fairleigh Dickinson University Press, London 2007, pp. 188-209.
[14] M. Lunetta, Poligrafia stilistica di R. Ombres, cit., p. 10164.
[15] L. Irigaray, Femmes divines, in “Critique”, 1985, p. 454.
[16] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, cit., p. 170.
[17] R. Braidotti, Nomadic Subjects: Embodiment and Difference in Contemporary Feminist Theory, Columbia University Press, New York 1994, p. 3 (tr. it. Nuovi soggetti nomadi, a cura di Anna Maria Crispino, Luca Sossella Editore, Roma 2002 ; cfr. anche D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, cit., p. 170.
[18] I. Margoni, Rossana Ombres, in G. Grana (a cura di), Novecento. I contemporanei, cit., p. 10170.
[19] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, cit., pp. 172-173.
[20] Ibidem, p. 172.
[21] T. Cornacchioli, M. Tolone, Il Premio Sila: cultura e impegno civile nella storia di un premio letterario meridionale, cit., p. 125.
[22] D.E. Hipkins, Contemporary Italian women writers and traces of the fantastic: the creation of Literary Space, cit., p. 173.
[23] Ibidem, p. 174.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem, p. 173.
[26] M. Lunetta, Poligrafia stilistica di R. Ombres, cit., p. 10165.

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